Di seguito le prime righe dei primi tre capitoli del libro "BABELE 2.0".
Enrico Senesi
BABELE 2.0
Riprendiamoci le Parole
Civiltà, effetti collaterali e assuefazione.
Babele 2.0. Un titolo. Una sintesi moderna di un episodio biblico. La narrazione, fra leggenda e religione, di un momento annichilente. Un difficile cambiamento, che crea sbandamento, nuove realtà. Una metafora, di un tempo indefinito e di un antico stato di confusione, che ora però si rinnova e si evidenzia, prepotentemente simile, nella nostra epoca. Unaconstatazione che provoca particolari sensazioni di insofferenza e inadeguatezza, che crea domande. Nascono, forse così, queste pagine. Un disagio, probabilmente di tanti, nascosto, silenzioso, verso una realtà caotica, a volte irriconoscibile, che cerca, spesso inconsapevolmente, appigli, riferimenti nuovi, quasi salvifici, come un nuotatore inesperto che si aggrappa con affanno all’inconsistenza della superficie dell’acqua. (...)
Comunicare - Condizione naturale, necessità e dipendenza.
Fin dalla nostra nascita, ragionevolmente anche prima, in modo assolutamente involontario, come respirare o come il battito del nostro cuore che segna ogni attimo della nostra esistenza, noi comunichiamo con il mondo che ci circonda e continuiamo a farlo per tutta la vita. Presumibilmente anche oltre. Comunichiamo quando siamo presenti ma anche quando non lo siamo; lo facciamo con le nostre parole ma, allo stesso modo, con i nostri silenzi. Comunichiamo con noi stessi, con il nostro corpo, con la nostra immaginazione, con la nostra parte spirituale, anche con chi non c’è più. Oppure comunichiamo, magari senza intenzione e con diverse modalità, con gli altri, con il resto del nostro mondo. Condividiamo informazioni, fatti, fantasie. Lo facciamo in modo diretto, semplicemente parlando; oppure in modo indiretto, con i nostri atteggiamenti, i nostri gesti, magari suonando, disegnando, scrivendo. O piuttosto, come accade da qualche anno, comunichiamo in maniera virtuale, affidando le nostre considerazioni, le nostre emozioni, anche le nostre rabbie, alla tastiera di sistemi, detti informatici: il computer, magari portatile, o il telefono, se così si può ancora chiamare, che è ormai diventato quasi una protesi delle mani più che della ragione, e nel prossimo futuro, chissà, forse direttamente con dispositivi neuronali innestati nel corpo. (...)
L’utilità della confusione.
“Grande è la confusione sotto il cielo, perciò la situazione è favorevole". Questo diceva, in maniera apparentemente semplice, Mao Tse-tung, che era uno che se ne intendeva. Potrebbe essere questa la sintesi più adatta, che rende evidente il diretto rapporto fra la quantità, la qualità e l’uso, spesso volutamente distorto, che si fa di uno dei fondamenti della natura umana: le relazioni fra le persone e i meccanismi di comunicazione che le rendono possibili. Forse non saremmo qui se, proprio nella citazione di Mao, appena riportata, non risultasse chiara la contraddizione fra uno stato di confusione diffusa e come questo possa poi risultare un beneficio per alcuni. Posta così però la questione non rende immediato il senso di questa latente perplessità. Necessita staccarsi un po’, allontanarsi, per avere una visuale maggiore, per notare, così, particolari poi determinanti anche per gli argomenti che cercheremo di affrontare più avanti. La Storia, ma anche l’esperienza quotidiana, ci ha più volte raccontato e insegnato che per creare nuovi spazi, qualunque sia la motivazione e la finalità, bisogna spostare qualcos’altro. Però spostando le cose, appunto per creare nuovi spazi, si possono ottenere due risultati opposti, a volte più ordine a volte più confusione. Dipende certo dalle capacità ma soprattutto dal risultato che si vuole raggiungere. (...)
Di seguito le prime righe dei primi tre capitoli del libro "Le parole giuste".
Enrico Senesi
Le parole giuste
Storia di Gianni Sparacia da Castelvetrano
Il mio spazio, il mio tempo
Ecco, qui, qui va bene. Mi capita, a volte, di parlare con me stesso, quasi come fossi un altro. Forse per non sentirmi troppo solo. In effetti, pensandoci, mi sembra strano farlo. Se vedessi fare o sapessi che una persona che conosco ha di queste “manie”, forse penserei a qualche suo problema. Ma in fondo cosa sappiamo delle motivazioni che portano una persona a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro. Cosa riusciremmo a capire senza averne vissuto la vita, le esperienze, le emozioni, i dolori. Senza essere l’altro. Che diritto avrei di porre giudizi su quanto un comportamento, a prima vista strano, possa effettivamente dirmi qualcosa di quella persona senza che questi miei pensieri non diventino una presunzione, un pregiudizio, nei suoi confronti. Comunque qui, qui va bene. Il buio della sala mi conforta. Questa artificiale forma di anonimato mi fa sentire quasi protetto. Mi siedo qui, un po’ a destra, in fondo. Poca gente, meglio così. Pochi occhi. Sprofondo nella poltrona e nel mio cappotto. (…)
Le stagioni perdute
Sole. Gigantesco, smisurato sole. Inconsapevole presenza, fonte di vita che avvampa i pensieri ancor prima che prendano forma. Che plasma le esistenze e le obbliga a cercare rifugio, a creare ombre. Luce. Luce bianca, accecante, che taglia l’aria, i respiri, e fa vibrare l’orizzonte e la nostra infanzia. Noi. Sì noi, o ciò che eravamo, immersi in questo mondo, staccati dal mondo in questa terra lontana. Terra. Terra di tufo e d’argilla, terra spaccata, che diventa nuvola sotto i nostri passi che già fuggono via, da quel nulla, senza chiedere né sapere. Nuvola arsa, che secca la gola e il nostro futuro. Nuvola che si spande, che si stacca dal suolo, trascinata in alto dal vento d’Africa. Vento. Vento che accarezza il mare caldo, che si impregna di sale, che monta la costa e scompiglia gli arbusti di origano e arriva a noi e ci riempie le narici e ci da fiato. Vento infuocato che graffia la pelle e i muri delle case ormai rugose. Muri che perdono i pezzi, quasi a segnare l’incedere delle stagioni. Torride immagini di un tempo qualunque perso nel tempo di sempre. (…)
Maledetto agosto
Nevica. Silenziosamente. Ormai sono le undici. Il cellulare è lì, sul tavolo, ma credo che non chiamerà più nessuno, se mai qualcuno avesse pensato di sentire la mia voce e sapere come sto. Dalla finestra guardo il profilo bianco dei tetti. Si intravvedono appena i piccoli fiocchi bianchi che spuntano improvvisi dal buio della sera, uno dopo l’altro, illuminati ad un tratto dalla luce gialla del lampione. Li vedo scendere e, per qualche strano effetto, mi sento bene, tranquillo. Stasera è una di quelle sere nelle quali sarebbe meglio dormire. Riuscissi a farlo. Sono qui, solo, a cercare un modo per non pensare. Un po’ di musica di sottofondo mi riporta, però, ad arrotolarmi nei pensieri. Questi diventano, senza volerlo, immagini, ricordi. Un riflesso del vetro mi riporta la mia faccia. Un po’ stanca e arruffata. Non è un granché stasera. Rende il tempo che ormai è passato. (…)
Di seguito le prime righe dei primi tre capitoli del libro "Villa Pirla".
Domenico Brioschi
VILLA PIRLA
… ma procediamo con ordine
Tra Lesa e Belgirate, lungo la Statale che risale la sponda “grassa”, quella piemontese, del lago Maggiore, si riesce ad intravvedere, specie d’inverno, tra le fronde delle chryptomerya japonica e i rami di secolari faggi e querce che popolano i giardini di grandi ville, un sinistro scheletro di capannone al centro di un ampio spazio ghiaioso. Questo residuo di industrializzazione mai giunta a compiutezza, questo schiaffo all’estetica, questo “ecomostro”, rappresenta l’ultimo atto di questa storia. Una storia che pare tutta attraversata dal vento di una maledizione: i suoi protagonisti in un modo o nell’altro sono spinti da questo vento in una sorta di dissipatio humanis generis, e alla fine sola resta la polvere dispersa dalla breva che soffia dal lago. (…)
Poco o nulla rimane
Del “Gigante del Palcoscenico”, del “Basso più alto del mondo”, della “Voce di Pluto” (intendendo il Re degli Inferi, non il cane disneyano) pochissimi ormai ricordano. L’illustre basso lirico milanese Achille Bianchini (nome d’arte di Antonio Scazzosi), per oltre 40 anni ebbe solida fama nel mondo lirico, oltre che per una voce che si diceva provenire nientemeno che dal centro della Terra, per un fisico imponente ed una forza erculea. Del Bianchini, da alcuni generosi ritenuto l'unico vero erede del più illustre basso verdiano, Prospero Derìvis, oggi non è rimasto praticamente nulla, nemmeno qualche incisione discografica, solo pochi stinti dagherrotipi e qualche stazzonata affiche della Scala, il teatro che lo vide imporsi nel panorama lirico della seconda metà dell’800. (…)
Nella provincia di Milano
La storia di Achille Bianchini ha inizio in una molto malandata cascina in territorio milanese, esattamente a metà strada tra due paesi, Mesero e Marcallo, più o meno dove oggi sorge l’omonima uscita dell’autostrada A4, a pochi chilometri da Magenta. I vecchi del territorio circostante non tenevano in grande stima questa zona, tanto che con forma idiomatica dialettale e popolaresca conservatasi a tutto il ‘900, ai ragazzini disobbedienti si prometteva bonariamente, ma non troppo, “una pedata tra Mesero e Marcallo”. Insomma, i due paesi venivano intesi dalla saggezza popolare come le “natiche” del mondo e il territorio compresovi il “buco del culo” del medesimo. Lì, nella molto malandata cascina di cui sopra, il 10 ottobre dell’anno 1843 dall’Incarnazione di N.S., coincidendo esattamente il trentesimo compleanno del supremo musicista Giuseppe Verdi, nacque Scazzosi Antonio, futuro basso lirico Achille Bianchini. (…)